Agromafie 2017: la criminalità a tavola
fattura 21,8 miliardi con un balzo del 30%.
Caselli: il Parlamento approvi la nuova legge
23 marzo 2017. Mozzarelle di bufala del figlio di Francesco Schiavone-Sandokan, boss del clan di camorra dei Casalesi; infiltrazioni nel settore ortofrutticolo del clan Piromalli; olio extra vergine di oliva di Matteo Messina Denaro; controllo del commercio della carne da parte della ‘ndrangheta e di quello ortofrutticolo della famiglia di Totò Riina: i più conosciuti clan della criminalità si dividono il business della tavola mettendo le mani sui prodotti simbolo del Made in Italy.
È quanto attesta il quinto Rapporto Agromafie 2017, elaborato da Eurispes, Coldiretti e Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare: un’indagine resa possibile anche grazie al contributo proveniente dalle Forze dell’Ordine, dalla Magistratura, dalla Commissione Caselli, istituita al Ministero della Giustizia, dalle Istituzioni e dagli Enti che operano sul territorio a salvaguardia del comparto agroalimentare.
L’attività illecita della criminalità organizzata legata all’agricoltura è ormai un fenomeno in continua espansione: coinvolge tutto il comparto agricolo e la filiera alimentare e “fattura” 21,8 miliardi, con un incremento record del 30%.
E reinveste il denaro sporco per controllare settori ‘puliti’ quali la ristorazione, la grande distribuzione, il turismo agricolo e persino in settori già consolidati come il ciclo dei rifiuti, le coltivazioni e la distribuzione dei prodotti ortofrutticoli.
Il rapporto sottolinea che nella top ten delle province italiane interessate dall’agromafia ci sono realtà del Nord come Genova e Verona, rispettivamente al secondo ed al terzo posto dopo Reggio Calabria, la prima…
Agromafie 2017: la criminalità a tavola
fattura 21,8 miliardi con un balzo del 30%.
Caselli: il Parlamento approvi la nuova legge
23 marzo 2017. Mozzarelle di bufala del figlio di Francesco Schiavone-Sandokan, boss del clan di camorra dei Casalesi; infiltrazioni nel settore ortofrutticolo del clan Piromalli; olio extra vergine di oliva di Matteo Messina Denaro; controllo del commercio della carne da parte della ‘ndrangheta e di quello ortofrutticolo della famiglia di Totò Riina: i più conosciuti clan della criminalità si dividono il business della tavola mettendo le mani sui prodotti simbolo del Made in Italy. È quanto attesta il quinto Rapporto Agromafie 2017, elaborato da Eurispes, Coldiretti e Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare: un’indagine resa possibile anche grazie al contributo proveniente dalle Forze dell’Ordine, dalla Magistratura, dalla Commissione Caselli, istituita al Ministero della Giustizia, dalle Istituzioni e dagli Enti che operano sul territorio a salvaguardia del comparto agroalimentare.
L’attività illecita della criminalità organizzata legata all’agricoltura è ormai un fenomeno in continua espansione: coinvolge tutto il comparto agricolo e la filiera alimentare e “fattura” 21,8 miliardi, con un incremento record del 30%. E reinveste il denaro sporco per controllare settori ‘puliti’ quali la ristorazione, la grande distribuzione, il turismo agricolo e persino in settori già consolidati come il ciclo dei rifiuti, le coltivazioni e la distribuzione dei prodotti ortofrutticoli.
I clan mafiosi condizionano il mercato
Il rapporto evidenzia che la stima del valore del business mafioso rimane, con tutta probabilità, ancora largamente approssimativa per difetto, perché restano inevitabilmente fuori i proventi derivanti da operazioni condotte ‘estero su estero’ dalle organizzazioni criminali, gli investimenti effettuati in diverse parti del mondo, le attività speculative poste in essere attraverso la creazione di fondi di investimento operanti nelle diverse piazze finanziarie, il trasferimento formalmente legale di fondi attraverso i money transfer in collaborazione con fiduciarie anonime e la cosiddetta banca di ‘tramitazione’, che veicola il denaro verso la sua destinazione finale.
La filiera del cibo, della sua produzione, trasporto, distribuzione e vendita, ha tutte le caratteristiche necessarie per attirare l’interesse di organizzazioni che via via abbandonano l’abito ‘militare’ per vestire il ‘doppiopetto’ e il ‘colletto bianco’, come si diceva un tempo, riuscendo così a scoprire e meglio gestire i vantaggi della globalizzazione, delle nuove tecnologie, dell’economia e della finanza 3.0. “Le mafie -afferma Coldiretti- dopo aver ceduto in appalto ai manovali l’onere di organizzare e gestire il caporalato e altre numerose forme di sfruttamento, condizionano il mercato stabilendo i prezzi dei raccolti, gestendo i trasporti e lo smistamento, il controllo di intere catene di supermercati, l’esportazione del nostro vero o falso Made in Italy, la creazione all’estero di centrali di produzione dell’Italian sounding e la creazione ex novo di reti di smercio al minuto”.
In ginocchio le piccole medie aziende
Nel 2016 si è registrata un’impennata di fenomeni criminali che colpiscono e indeboliscono il settore agricolo nostrano dove quasi quotidianamente ci sono furti di trattori, falciatrici e altri mezzi agricoli, gasolio, rame, prodotti (dai limoni alle nocciole, dall’olio al vino) e animali con un ritorno prepotente dell’abigeato. Non si tratta più soltanto di ‘ladri di polli’ quanto di veri criminali che organizzano raid capaci di mettere in ginocchio un’azienda, specie se di dimensioni medie o piccole, con furti di interi carichi di olio o frutta, depositi di vino o altri prodotti come file di alveari, intere mandrie o trattori caricati su rimorchi di grandi dimensioni. A questi reati contro l’agricoltura, secondo il Rapporto Agromafie, si affiancano racket, usura, danneggiamento, pascolo abusivo, estorsione nelle campagne mentre nelle città, silenziosamente, i tradizionali fruttivendoli e i nostri fiorai sono quasi completamente scomparsi, sostituiti da immigrati che, pur parlando un italiano molto stentato, controllano ormai gran parte delle rivendite attive sul territorio. Si direbbe un vero miracolo all’italiana, affiancato però dal dubbio che tanta efficacia organizzativa possa anche essere, spesso, il prodotto di una recente vocazione mafiosa per il marketing. I poteri criminali si annidano nel percorso che frutta e verdura devono compiere per raggiungere le tavole degli italiani e che vede uno snodo essenziale in alcuni grandi mercati di scambio per arrivare alla grande distribuzione.
Tra tutti i settori agromafiosi quello della ristorazione è forse il comparto più tradizionale e immediatamente percepito come tipico del fenomeno. In alcuni casi sono le stesse mafie a possedere addirittura franchising e dunque catene di ristoranti in varie città d’Italia e anche all’estero, forti dei capitali assicurati dai traffici illeciti collaterali. “Il fenomeno Agromafia è in continua evoluzione: come è sempre stato nella natura delle organizzazioni mafiose che si sono spostate lì dove si concentrava la ricchezza – ha detto Gian Carlo Caselli – perché il segreto di queste grandi organizzazioni criminali è la capacità di adattarsi. Quindi, se da una parte si allentano le tradizionali intimidazioni eclatanti ed evidenti, dall’altro aumenta il dominio e il controllo economico. Questa evoluzione criminale deve essere contrastata da quella non solo giudiziaria, ma legislativa”. Il richiamo è alla riforma in 49 punti sui reati agroalimentari studiata dalla commissione guidata da Caselli: proposta bloccata da circa nove mesi nei diversi ministeri. “Per il bene dei consumatori, è bene che vada presto in Parlamento”, ha aggiunto Caselli.
Profitti reinvestiti in attività di ristorazione
Il rapporto sottolinea che nella top ten delle province italiane interessate dall’agromafia ci sono realtà del Nord come Genova e Verona, rispettivamente al secondo ed al terzo posto dopo Reggio Calabria, la prima.
Il Sud è comunque protagonista, con Catanzaro e Reggio Calabria, Palermo, Caltanisetta e Catania, Caserta e Napoli, Bari. Per quel che riguarda Genova “il dato emerso è particolarmente elevato – osserva Coldiretti – a causa di un diffuso sistema di contraffazione e adulterazione nella filiera olearia nelle fasi di lavorazione industriale e approvvigionamento dall’estero di oli di minore qualità da spacciare come italiani”. Le indagini effettuate dalle Fiamme Gialle nel 2016 hanno portato a decine di sequestri, inclusi 10mila litri di olio ‘vergine’. Una nota multinazionale italiana del settore, con sede a Firenze e stabilimenti anche in Lombardia, lo aveva già imbottigliato con il suo marchio, spacciandolo per extravergine. Nella provincia di Verona la presenza dell’agromafia risulta rilevante in particolare per il fenomeno dell’importazione di suini dal Nord Europa e indebitamente marchiati come nazionali, ma anche per gli interventi delle Forze dell’ordine a contrasto dell’adulterazione di bevande alcoliche e superalcolici, tra cui la rinomata grappa locale.
Industrie compiacenti anche in Lombardia, dunque. Dove i profitti criminali sono reinvestiti soprattutto nella ristorazione: coinvolgerebbe oltre 5.000 locali, con una più capillare presenza a Milano, Roma e nelle grandi città. Attività ‘pulite’ che si affiancano a quelle ‘sporche’, avvalendosi degli introiti delle seconde, assicurandosi così la possibilità di sopravvivere anche agli incerti andamenti del mercato e alle congiunture economiche sfavorevoli, ma anche di contare su un vantaggio rispetto alla concorrenza con la disponibilità di liquidità e la possibilità di espandere gli affari.
“Le agromafie vanno contrastate nei terreni agricoli, nelle segrete stanze in cui si determinano i prezzi, nell’opacità della burocrazia, nella fase della distribuzione di prodotti che percorrono centinaia e migliaia di chilometri prima di giungere al consumatore finale, ma soprattutto con la trasparenza e l’informazione ai cittadini, che devono poter conoscere la storia del prodotto che arriva nel piatto -ha affermato Roberto Moncalvo, presidente di Coldiretti-. E ha sottolineato che “per l’alimentare occorre vigilare sul sottocosto e sui cibi low cost, dietro i quali spesso si nascondono ricette modificate, l’uso di ingredienti di minore qualità o metodi di produzione alternativi se non l’illegalità o lo sfruttamento”.